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GIANNI DE MARTINO
LA SCRITTURA DI DRACULA

 

La scrittura di Dracula
LA SCRITTURA
DI DRACULA

 

seguito da
LE NOTTI BIANCHE. NOTE SU TRANCE E SCRITTURA

di Gianni De Martino => website

© Gianni De Martino 2012.

© Per questa versione Ebook: «L’Olandese Volante», Morbegno, San Cassiano (SO), 2012. La scrittura di Dracula 5

Nel film "Dracula di Bram Stoker" (1992), il dottor Jack Seward è disperato: la sua Lucy sta morendo di una malattia incurabile di origini sovrannaturali. L’incontro del vampiro con il corpo della sua fidanzata ha lasciato due piccole tracce che diventano oggetto di una serie di letture da parte di parenti, conoscenti e amici della vittima. Nel film, come nel romanzo (1897), vengono più volte descritti in dettaglio i buchi lasciati nella carne. Inizialmente, i due puntini rossi sembrano quasi insignificanti. Quando Mina Murray li scopre sul collo della sua amica Lucy Westenra crede di essere stata lei stessa a provocarli: per distrazione, "con una spilla da balia". E’ solo quando le due piccole piaghe non solo non guariscono, ma si allargano, mostrando bordi bianchicci e malsani, che in famiglia ci si rende conto della gravità del caso.

 

Arriva cosi il momento di far intervenire il professor Abraham Van Helsing (Anthony Hopkins), eccentrico docente universitario olandese, di religione cattolica, che conosce molto bene, perlomeno così crede lui, la natura del vampirismo. Il suo scuotere la testa e storcere il naso non annuncia niente di buono… Intanto, il primo piano letterario anticipa quello cinematografico. Il lettore è invitato a venire a vedere: occorre sporgersi ai bordi di due piaghe con orli che si allargano a tutto lo schermo. Nel primo piano dei buchini slabbrati si trova un messaggio che, per quanto possa sembrare incredibile a una famiglia media, medio-vittoriana, dice:

 

DRACULA È SBARCATO SULL’ISOLA – HA PERCORSO LE VIE AFFOLLATE DI LONDRA –
È VENUTO DENTRO LA NOSTRA CASA –
HA ADDENTATO LA NOSTRA PICCOLA LUCY E L’HA PENETRATA CON LE SUE GROSSE ZANNE INFETTE.

 

Secondo Sara Thornton (in Écriture et morsure: l’extase de la ponctuation dans Dracula de Bram Stoker), le due piaghe sembrano costituire "una nuova forma di scrittura": la scrittura di un forestiero di ascendenze asiatiche, portatore di un’altra lingua, un altro corpo e due dentoni grossi così. Insomma, i due punti incisi nel vivo sono la scrittura di Dracula. Si tratta di un morso sulla giugulare che – come si vede nella scena feticcio del romanzo di Stoker riprodotta in maniera quasi caricaturale da Christopher Lee e Barbara Shelley nel film Dracula, Prince of Darkness, di Terence Fisher (1966) – segna con un marchio indelebile il momento dell’estasi: l’istante di un’intrusione estranea nel corpo, che al suono di un oscuro succhiare e lappare ne modifica la grammatica: il desiderio si libera dalle costrizioni borghesi che lo limitano e la vittima diventa, a sua volta, un vampiro furbo e crudele. E’ quel che accade alla piccola Lucy, che dopo la puntura di Dracula si sottrae alla società puritana dell’Inghilterra vittoriana che la destina al matrimonio e alla fedeltà, e diventa una mangiatrice di bambini, se non una specie di umbratile punk ante-litteram e orrenda graffitara antagonista e transmoderna. I due punti, che segnano nella frase un tempo di pausa per un cambiamento di direzione, hanno aperto il corpo del vampirizzato verso altri spazi: quelli della notte; anzi di molte notti abitate da una Lucy diventata euforica, eccessiva, trasformata in una fiera seduttrice, lubricamente posseduta da altri desideri e proiettata verso scambi scellerati e attività sotterranee che – da oscuri covi, tombe, tombini e angoli non visti – resistono alla legge e allo sguardo dei guardiani del terreno dei bisogni e dei cacciatori di vampiri.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il primo morso non si scorda più. Dracula è la droga delle sue vittime e il piacere si disegna dal battito di due cuori all’unisono: al di là, sempre al di là, dal profondo del sangue, sempre sul punto di cominciare e mai di finire… Morso dopo morso, in un vero e proprio delirio di filiazione negativa, i vampiri – mordendo gli incauti che ne subiscono il fascino underground – si generano indefinitivamente… Così come anche i più di mille film e i numerosi rifacimenti delle storie di vampiri. Per non dire dell’espansione dei media e dei blog, di cui Dracula rappresenta la figura: un’espansione indefinita che confonde i sistemi chiusi, le ortodossie di ogni genere – mentre per noia o sazietà, la classe letterata europea – sempre più errante, aperta e disponibile – si lascia sedurre dalla barbarie e si apre ai multiculturalismi e alla bontà dei meticciati e delle contaminazioni di ogni genere.

 

Forse è solo il morso della ricchezza corrosiva della vita. Forse non dovremmo difendere il nostro benessere da ogni minima o grande minaccia. D’altra parte è anche vero che, vampiro o non vampiro, finiremo comunque "schiacciati, sepolti, bianchi e immobili per sempre sotto tutta questa ricchezza" (Vincenzo Consolo, mentre addenta un esotico zichinì in: «Porta orientale», in AA.VV., Milano per le strade, Azimut, Roma 2009). Ma non è di noi vecchi Europei esangui ed evanescenti che volevo parlare… Eppure nello scrivere di vampiri qualcosa mi ha morso: ecco, il vampiro non solo "scongela" e rende porosi, per così dire, il corpo e l’anima di Lucy, ma introduce anche in chi scrive uno strano desiderio di addentare e far durare la frase, di accumulare e deviare, di aggiungere proposizioni subordinate: e di dirlo per inciso, grazie ai suoi perversi incisivi.

 

Il cerchio della sinistra congrega dei nosferatu non cessa di allargarsi: morso dopo morso, fra i ri-morsi di un corpo lussurioso di vampiro e di lingua che – una volta in moto – si accavalla, molesta, occupa e morde. E non è solo questione di uno o due buchini: è l’accumulo di tante piccole ferite e modeste deviazioni a suggerire che ci troviamo in presenza di un caso molto grave. Occorre tagliare nel vivo di tanta draculesca eccedenza e mettere fine a tutto questo, cioè al vampirismo. È quel che raccomanda anche Van Helsing a Jonathan Harker (Keanu Reeves) e alla sua fidanzata Mina (Winona Ryder), descrivendo con fanatismo tranquillo la decapitazione di Lucy. Sono tutti e tre a tavola, Mina lo guarda esterrefatta e Jonhatan Harker ha appena fatto la spia, rivelando dove si trova il conte Dracula. Ingurgitato in fretta e furia un bicchiere di vino, Helsing improvvisamente si anima e si rivolge alla giovane coppia per una veloce lezione sul vampiro e le sue abitudini: «Il vampiro esiste ed è questo che combattiamo, questo affrontiamo. Egli ha la forza di venti e più persone, e voi lo potete testimoniare signor Harker, costui esercita il suo potere anche sugli esseri più infimi, il pipistrello il ratto, il lupo, può apparire sottoforma di bruma, vapore o nebbia e dileguarsi quando vuole. Ora… Dracula può fare tutto ciò, ma non è libero, per accumulare tutta questa forza malefica deve riposare nella terra del suo paese natio, è li che lo troveremo e lo annienteremo definitivamente». Nella lotta contro Dracula occorre opporre una chiusura a sempre nuove aperture, doppi e multipli. È difficile contrastare il potere dei vampiri, capaci di metamorfosi, replicazioni, teletrasporti, allenamenti agli ultrasuoni (come i pipistrelli), comunicazioni telepatiche. Difficile, ma non impossibile: la forza malefica di Dracula può essere annientata con un punto; non il punto e virgola, punto con una piccola colata di sangue, ma un punto fermo e definitivo.

 

Perlomeno così pare. Ad ogni modo, la scrittura di Van Helsing sarà il punto lasciato dall’ago nel braccio di Lucy nel corso delle numerose trasfusioni da lui effettuate per sostituire il sangue contaminato da Dracula con quello dei suoi familiari. A differenza di Frankenstein, inquieto e disperato, in lotta con se stesso (come ogni buon eroe romantico), il professor Van Helsing, potrebbe apparire come uno stupido vittoriano. Come Jonhatan (impiegato di uno studio legale) e sua moglie Mina, egli è convinto di rappresentare il Bene, e ne è soddisfatto. Lo testimonia il paletto – segno dell’autorità dell’uno – conficcato nel cuore del Vampiro.

 

Tecnica patetica dei cacciatori di vampiri. Per loro non c’è festa senza sangue. Li si può vedere ogni giorno marciare con il cuore in mano alla luce del sole, del grande sole mentitore. Non dormono nella bara, ma quando non sfrecciano in automobili cromate e non organizzano le ronde e le trasfusioni nei quartieri , si rigirano nei loro letti, anche matrimoniali, minimizzando il sangue che cola dalle crepe dei muri di casa, i cattivi odori che si sprigionano dal frigorifero o forse dalla cucina a gas e i buchini che si aprono nelle calze, nelle lenzuola e nel corpo. Oh, dicono, non sono altro che buchini quasi insignificanti, piccole ferite, anche narcisistiche, volendo. Eppure vi soffia dentro un vento terribile, sentimentale, che li fa ammalare e li spinge a correre dove porta il cuore; vale a dire all’ospedale, a rottadicollo. Ancora le campane, le sirene, le ambulanze? Neanche tanto frastuono li distoglie dal credere all’armonica musica delle sfere. Neanche l’accumulo di tante piccole ferite e rotture permanenti della spina dorsale, o di aghi d’acciaio, potrebbe convincerli di una gravità. Loro, i cacciatori di vampiri, rappresentano il Bene tranquillo, e ne sono soddisfatti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I VAMPIRI ESISTONO

 

Vengono (come quei dèmoni che per tranquillità chiamiamo fantasmi) sia dall’esterno che dal profondo di noi stessi. Ancorché con i canini assolutamente nella norma, siamo tutti, o quasi tutti, "vampiri dentro", occupati anche in pieno sole a succhiarci vicendevolmente linfa vitale nei cosiddetti rapporti d’amore e di lavoro. (Non vi ho forse sottratto tempo e spazio, proprio in questo preciso istante, lasciandovi in cambio solo un pasto di parole fredde?) E qui mi blocco, anzi indietreggio davanti alla confessione di avere, da chissà quando, un vampiro nella testa, e di dover dunque considerarmi un posseduto. Tutto quello che, in noi, non si riconosce mortale e non rinuncia a ri-vivere il trauma si trasforma nel sogno del vampiro. Tutti noi siamo stati abbandonati, solo che i vampiri non hanno mai voluto dimenticare l’amaro e doloroso trauma di essere stati esclusi per sempre dalla vera vita. Talvolta, come schiacciati dal famoso "senso di colpa", una specie di peccato originale, assumiamo l’apparenza di virtuosi masochisti che, abbagliati dalla lettera della legge, chiudono un occhio e gli occhi sui bordi slabbrati, si tappano il naso, la bocca, le orecchie e l’uretra, e – ciechi a quel che sta dietro – difendono l’ano e l’avello, ben stretti, da chissà quale seducente devastazione o baratro. In modo che tutto sia ben chiuso e sigillato dall’uno. Insomma, i veri vampiri non cessano di riempire, smaltire, depurare e chiudere buchi, proprio come fa la morte… Dracula invece li apre, i buchi…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lo sguardo di Dracula è quello di un trapassato e il suo punto di vista è la sua bara, nella terra del suo paese natìo dove il giorno egli riposa e la notte si sprigiona con forza rinnovata verso l’esterno. Eppure la scrittura di Dracula non è una lapide e il suo morso è un’ouverture (ouverture in musica e apertura nella carne e tra due righe). Se il vampiro, sbucando qua e là, potesse parlare, forse direbbe: "Contro le sofferenze dell’amore e dell’odio, il più sicuro rimedio è il disprezzo: quando non c’è più confidenza né stima, la piaga del paletto di quello sciocco professore olandese si cicatrizza subito". Per fortuna o sventura, con quel bugiardo di Dracula c’è sempre un seguito. Punto. Anzi, due punti : aperti al divenire del vampirismo generalizzato, ubiquitario e diffuso, e all’imprevisto: "Be’, ciao e a questa notte: per un tetto aperto, una qualche finestra socchiusa, un galeone scomparso…ah ah ah…"

 

 

 

LE NOTTI BIANCHE
NOTE SU TRANCE E SCRITTURA

 

 

 

 

 

 

 

 

Il corpo vampirico, di cui fa parte il linguaggio, è un corpo lussurioso che – una volta in moto – si accavalla e molesta, occupa, morde e incide. E’ un po’ quello che capita anche allo scrittore alle prese con la frase: tra morsi e rimorsi la si potrebbe far continuare all’infinito, senza mai chiuderla… Proust scrive frasi lunghissime e suscita deliziose vertigini perché non sai dove andrà a parare. È rapsodico. È nella scrittura giornalistica (che spesso rovina gli scrittori che sono anche giornalisti) che si usano solo frasi corte. Temo che questo porti al nanismo della Letteratura, perlomeno della Letteratura in commercio. Ma perché dico queste cose, quasi dandomi la zappa sui piedi ?… Entrare in un movimento creativo è una follia che si presenta come non-follia. Un tale movimento deve restare imprevedibile per non risvegliare la sognatrice o il sognatore. Durante il giorno, dormire e sognare una bella addormentata; di notte vagabondare come un flâneur: sembrano le vie della vera vita di un onesto e sano vampiro.

 

L’atto dello scrivere è, come ha già detto qualcuno, caso e causa di un certo sdoppiamento di sé. Si tratta di un ambito raramente investigato dalla critica, che con impostazione neo-retorica, ancorché arricchita dagli strumenti freudiani, si concentra prevalentemente sul testo e talvolta sulla biografia dello scrittore. Eppure l’atto dello scrivere, nella sua specifica consistenza anche tecnico-materiale e spirituale, fa parte di quell’attività complessiva che chiamiamo letteratura.

 

Una trance è in atto nello scrivere, così come nel fare musica o pittura e in ogni altro equivalente della scrittura. L’ho individuata e definita, distinguendola dalla grafomania, "trance scrittoria". Gli antichi Greci attribuivano la dissociazione creativa agli dèi e alle Muse, distinguendola come "giusta manìa" (orthé mania) dalla pazzia vera e propria. I romantici attribuivano quella specie di patologia che oggi chiamiamo "creatività" all’"ispirazione", e Baudelaire alla "correspondance" – mentre i surrealisti hanno utilizzato gli stati di trance come risorsa poetica.

 

Il termine di "correspondance" appartiene al vocabolario dei mistici e Baudelaire ha precisato il suo pensiero nelle Notes nouvelles sur Edgar Poe (1857):

 

«C’est cet admirable, cet immortel instinct du Beau qui nous fait considérer la Terre et ses spectacles comme un aperçu, comme une correspondance du ciel. La soif insatiable de tout ce qui est au-delà , et que révèle la vie, est la preuve la plus évidente de notre immortalité. C’est à la fois par la poésie et à travers la poésie, par et à travers la musique que l’âme entrevoit les splendeurs situées derrière le tombeau. – È questo ammirevole, questo immortale istinto del Bello che ci fa considerare la Terra e suoi spettacoli come una corrispondenza del cielo. La sete insaziabile di tutto quello che è al di là, e che rivela la vita, è la prova più evidente della nostra immortalità. È nello stesso tempo per la poesia e attraverso la poesia, per e attraverso la musica che l’anima intravede gli splendori situati dietro la tomba.» Il sonetto "Correspondance" espone anche l’idea di corrispondenze sensibili che rivoluzioneranno l’espressione poetica e la letteratura diventate "sorcellerie évocatoire – stregoneria evocatoria". Nel cogliere "una parte di questo splendore" di al di là, il movimento della scrittura va così, nero su bianco, dalle tenebre alla luce. E una luce di poesia trasforma il reale della natura bruta e ci corrisponde, ci trasforma. L’apparizione della luce apre l’animale all’immaginario e a un mondo umano in cui il poeta rinnova l’alleanza primaria con la creazione. Non importa se il creatore abbia o non abbia consistenza ontologica, perché brilla comunque splendido nell’immaginazione. E, poiché agisce, ha un senso ed è, in qualche modo, reale. La poetica della creazione non è propriamente un "essere", ma un transito, un oltrepassamento, un passare che scrivendo oltre, sempre oltre, si configura come poetica del divenire (anche di un testo a venire), di un futuro possibile, o anche impossibile. Un futuro che, come effetto dell’atto creativo, "sarà quel che sarà".

 

Scrivendo non si sa. Si va. Si va perché si è nel buio, e a chi scrive non piace, il buio. C’è dentro. E allora, in risposta a un appello, sfida l’afasia, mobilita il proprio interno  (l’inferno), e si fa strada fra le tenebre mentre uno stretto passaggio diventa paesaggio e la luce si trasforma in giorno.

 

Ma l’immaginario del mondo umano che tramite lo spiegamento della luce riannoda con la prima aurora, non trasforma senza resto la tenebra in notte. Resta infatti ciò che ancora potremmo chiamare abisso, e che nessuna parola in realtà scavalca.

 

In realtà (che terribile espressione!), la notte e il giorno noi giravamo in tondo. E scrivendo non ci accorgevamo di morire. Chiedevamo: ha la letteratura qualcosa per illuminarci? La vocazione della parola suppone l’afasia, e la scrittura un lavoro immenso (cosa mettere? cosa togliere?) ai bordi della tomba. Che ne facciamo del corpo?

 

L’"istinto del Bello" è un’espressione nostalgica e mortifera: evoca il Paradiso, cioè la morte: "un mondo stellare dove – come scrive l’adepta del sublime Pietro Citati - non esiste colpa, non esiste sesso, non esiste storia, esiste solo una beatitudine infinita." "L’infinito? Va’, citrullo!", così oggi la buonanima di Antonio Porta forse risponderebbe al mullah Pietro Citati…

 

La morte sarebbe l’intuizione (più o meno deprimente) che l’autore, in me, non crea la vita – ma, al limite, il solito inferno e i soliti terrori del Paradiso. È come in quel quadro di Arnold Böcklin (1827 - 1901), in cui il pittore raffigura se stesso nell’atto di dipingere e, nello stesso tempo porge orecchio al vecchio scheletro che suona il violino.

 

In ogni caso la futura polvere scrive per evacuare Tempo & Spazio, che non sono una risposta. E orienta tutti gli atomi e le lettere verso quello spazio di non-morte, ma anche di non-vita, che sarebbe la scrittura. Al di là, sempre al di là dal profondo del sangue e fino alla perorazione del soffio. Chissà perché mentre il desiderio di splendori immaginari "situati dietro la tomba" muove tanta polvere alla scrittura e alla poesia, il pensiero non cessa di fabbricare vette o baratri. Su e giù. Apparendo e scomparendo. Gridando "fort-da", con voce di prima infanzia, come il piccolo Hans durante l’assenza della madre. Sempre, o perlomeno in tutti i momenti chiave dell’amore così come della scrittura creativa, la morte fa la sua apparizione formale attraverso il bianco, il silenzio, l’intervallo, il vuoto, il buco… Evidentemente qui è forte il tentativo di fare come fa la morte: riempire il buco. … Era un buco abbastanza vasto da contenere l’universo e il canto dell’universo, e persino la fulminea, abissale caduta di Lucifero (quel buffone che si credeva fonte della sua propria luce). La vocazione della letteratura suppone l’esperienza intima di una "mancanza", di un’assenza e dell’abisso. E questo abisso è all’origine del Libro. Del resto, forse per questo la letteratura è sempre stata nera, fin dall’Antichità. E il mitico inventore cinese della scrittura ha pianto, dopo aver inventato la scrittura.

 

Non si tratta di qualche depressione, magari come conseguenza del rigetto del desiderio, ma della caduta essenziale all’origine dell’umano, come conseguenza dell’apparizione dell’immaginario nello psichismo umano.

 

Senza l’abisso fabbricato dal pensiero e la malinconica caduta in questo inferno non c’è scrittura. Così come senza amore non c’è nulla per scavalcare l’abisso, nessuno per arrestare la degradazione nostra, del linguaggio e della natura oltre il foglio bianco e i bit.

 

Chissà da quanto tempo nell’universo o i multiversi è entrato il Fuori, è entrata la morte. Non resta che scrivere nel tuono che rimbomba dopo il lampo, o la simulazione di un lampo. E vegliare in un suono più intenso del silenzio.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RIPRESA.

CRISTO E IL VAMPIRO

 

Talvolta, nella solitudine assoluta, l’Appello viene inteso da una singolarità irriducibile che resiste, nel bianco, alla messa a morte del desiderio dovuto ai tanti e differenti discorsi della schiavitù umana, sempre più spesso rivestita di autonomia, di "grandezza" e di nichilismo, anche e soprattutto nichilismo attivo.

 

Non si tratta tanto della rottura simbolica tra un buon dentro dotato di "istinto del Bello" e un fuori cattivo, perché la morte non è solo "là fuori" e il nichilismo è comunque già in noi. Si tratta – come suggeriva la buonanima dell’amico poeta Ermanno Krumm – di "conservare uno strano equilibrio nell’assedio". E ravvivare , come già faceva il Libro che non sarà mai scritto, quello che resta irreparabile, e che scrivendo non cessiamo d’incarnare.

 

A ogni a capo, a ogni morte e resurrezione nello spazio bianco, il punto ci riporta verso la credenza insensata, nella madre, dell’esistenza dell’Altro come onniveggente e onnipotente ("guarda che se viene papà si arrabbia"). Chissà da quanto tempo in chi scrive era entrato, insieme al linguaggio, quel padre immaginario con i suoi oggetti essenziali: lo sguardo e il dito ammonitore (il Fallo che nessuno di noi è? Tra due righe s’intravedono i soliti panni cacati di Edipo. O perlomeno la loro torsione). A volte succede di scrivere tra una madre che canta e il padre che detta. Chissà se oggi è ancora così. Erano i tempi in cui ogni libro sembrava assumere la forma di una tomba che ci ricordava, incessantemente, che occorreva sollevare la lapide dell’oblìo della prima caduta, quel crimine, quella caduta primordiale della quale non ci si poteva ricordare – se non, talvolta, mentendo sinceramente tra culla e bara, vale a dire tra due pulsioni. Erano i giorni dell’angoscia, di cui la vera sede era l’io, e che non era senza oggetto. A essere senza oggetto era uno strano desiderio di assoluto, un messaggio incomprensibile, ma che poteva essere inteso. Per aver inteso l’incomprensibile entravate, nella maggior parte dei casi, nel gioco movimentato e commovente della differenza sessuale. E talvolta, come Giacobbe, in solitudine, in una lotta con l’invisibile. Un invisibile che infinitamente e per sempre feriva e oltrepassava. Non restava che zoppicare. E ricordare, con Freud, che zoppicare non è peccato.

 

La lotta con l’invisibile portava la traccia della caduta nell’abisso, forse di un crimine, ed era senza parole. Il senza parola che ci precedeva come invisibilità totale era proprio il libro che stiamo scrivendo adesso/tempo fa. Questo è il Libro che non sarà mai scritto, il quadro che non sarà mai dipinto, la musica che non verrà mai suonata, insomma il padre dei libri, dei quadri e delle musiche a venire. Così parlava il Padre cieco che sembrava non sapere niente, o non ancora. L’Altro della parola.

 

L’Altro della parola? Non eri un cultore delle coincidenze, ma come per trarre "ispirazione", un giorno ricorresti all’antica arte della mantica: apristi il Libro a caso, come da ragazzo facevi con l’I Ching, e – che strana corrispondenza! – leggesti: "Ecco sto alla porta e busso; se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me " (Ap 3, 20). Anche nei racconti di vampiri vi sono tombe vuote. E, nell’attesa di essere invitato ad entrare, un fantasma a un tempo noto e inaspettato (quasi un’ombrosa parodia del Risorto) si tiene malinconicamente alla porta, e bussa… Bussa mordendo il vuoto? Come lo spettro del padre di Amleto, allorché chiede: " Ti ricordi di me?". Non sempre il fantasma è un botolo innocuo, talvolta è un vero e proprio dèmone. Potrebbe anche non essere un angelo, ma l’ala nera di un pipistrello : «l’ala dell’imbecillità che passa», come scriverà Baudelaire nel «Diario intimo», mettendo a nudo il suo cuore poco tempo prima che venisse colpito da afasia. Anch’io, al fondo del mio inferno, sono abitato da un crudele vampiro, anzi da un vero e proprio turbine di vampiri. E’ gente morta che non vuole morire, molti di loro hanno la testa vuota da dietro. E talvolta si tengono come ombre nere appiattite lungo i muri del mio studio. È quando mi getto da solo in un angolo, a scrivere. Vale a dire ad attendere, non inerte, l’arrivo dei fantasmi. In quanto creature disincarnate, hanno sete di sangue e di vita, di vera vita. Le strane vicissitudini del desiderio non possono essere ridotte, senza resto, a gestione ottimale dei bisogni. Né l’inconscio può essere evacuato dall’aspirina. In un giro senza fine di fertili depressioni ed euforie, continue morti e resurrezioni nello spazio bianco e travestimenti multipli, anche il movimento vivente della scrittura apre, in qualche modo, a metamorfosi significative e quasi deliranti. Fra morsi, rimorsi e quello che per tranquillità chiamiamo l’Inconscio, l’Altrove o il «ritorno del rimosso», il movimento vivente della scrittura esprime, anzi sprigiona le scintille di uno strano desiderio di non-morte. Che l’innumerabile esistere possa realizzare un tale enorme desiderio di vera vita. Possano tutti ritornare alla luminosità e lo splendore del loro vero essere. Possano tutte le creature ritornare sane e salve a casa. Ecco finalmente delle parole chiare. Risuonano simili a quelle della mamma – madre Terra viva dentro di me che invita tutti i suoi figli a casa per uno stufato: quelli più umili, che siedono a terra, con il culo a terra, e tutti quegli altri numerosi bimbi morti che giocano in cielo. Venite in una terra che mai sarà invasa. Ed entrate tutti in giardino, a riposare un poco in pace. Anzi, perché no?, a giocare in armonia. È quando una festa apocalittica si leva dietro il sole. E scorre molto sangue, forse perché nella Galassia non hanno ancora inventato feste senza sangue, simili alle danze lievi e immacolate dei beati. Lo dice un coro di voci angeliche. A bassa voce, quasi senza voce, nel timore che tutto possa perire, tutto rifiorire.

 

Ma cosa sono le parole se non cenere. Le ceneri del Cristo- Fenice. Perlomeno così pare, finché non incontrano un lettore attivo, diventando le rivelatrici di una presenza permanente che le abita, "come un biblico roveto ardente" (Antonio Spadaro, in L’altro fuoco: l’esperienza della letteratura, Jaca Book, Milano, 2009).

 

L’Altro della parola sarebbe un «roveto ardente»? Appartengo a una generazione che credeva di poter ardere senza bruciare. Ora non so, ma vedo chiaramente che non si va a quel sacro Forno se non per essere distrutti. Occorre saper bruciare per passare il tempo al tempo e dare calore agli altri. Come quegli sciamani che allora possono cominciare a cantare quando, ridotti a uno scheletro, possono fare di un proprio osso un tamburo, una nacchera o un flauto. Ma allora occorrerebbe diventare oltre che lettori attivi anche intrepidi viandanti, e – una volta toltosi le scarpe davanti al mistero del Forno – avere il coraggio di restare a piedi nudi, senza vergognarsi di mostrare qualche buco nei calzini. Insomma - se in noi resta ancora qualcosa capace di venerazione (come peraltro si augurava il povero Nietzsche barcollando tra Dioniso e il Crocifisso) – occorre il coraggio, davvero virile, di essere teneri e molto umili per aprirsi all’avvampare di Dio nel groviglio delle parole, mentre ci si china fino a terra, la faccia nell’acqua viva dell’Altro della creazione e la pozzanghera della propria notte – fra tanti eccellenti vampiri. Mica roba da poco!

 

Anch’io come loro, i vampiri, avrei bisogno di rinsanguarmi un po’. Scrivere è il mestiere più solitario che esista. Solitudine, come se non sapessimo tutti cosa questa parola significa. Invece di decidermi ad amare e morire, da solo, potrei, forse, mandare numerosi vampiri, i miei fratelli oscuri, presso il lettore: potrebbero rinsanguarsi se solo trovassero la vena giusta (oh, solo qualche buchino, una piccola ferita, anche narcisistica, volendo). Invece li prendo per la manina, i fantasmi, e dico loro di non disperare. E che non li manderò via, al mio posto nel mondo, a incidere nel mondo e a fottere il mondo. Un discorso che, al limite, riguarda gli scrittori e gli artisti. Per scrivere, infatti, non bisogna fottere. Nella maggior parte dei casi, un artista non entra nell’altro, si limita a non uscire mai da se stesso e dal suo sudario, il bianco della pagina. Certo, non c’è niente di più difficile che tener fermi i morti e, per realizzare i loro desideri, disegnare per loro vere montagne, fiumi, mari e città, abitati da veri uomini, donne e bambini. Non è facile simulare un lampo e far cadere una fresca pioggia primaverile sulla terra scura. Ancora più difficile è poi resistere nel rimbombo del tuono e disegnare, con mano ferma, un’onda. Condividere con spettri, dèmoni e fantasmi le notti bianche e la sete di vita, di vera vita, esiste forse una migliore compagnia?
21 gennaio 2012

 

 

Now, being me that horizon Gianni De Martino

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

- Gilles Deleuze e Felix Guattari, Mille Plateaux. Capitalisme et schizophrénie, Minuit, Paris 1980, tr. di G. Passerone, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma 1987.

- Gianni De Martino, L’ultima lettera di Vlad il Vampiro, con quattro tavole di Giorgio Bertelli, coll. "Chirografie", edizioni di Barbablù, Siena, 1993; «Lo scriba e il tiranno. Note sull’atto dello scrivere», in "Il piccolo Hans", n.77, Moretti & Vitali editori, Bergamo 1993.

Georges Lapassade, Transe e dissociazione, Sensibili alle foglie, collana Risorse vitali, Roma, 1996; La scoperta della dissociazione. Un viaggio nella pluralità di stati della mente, Controluce-Salento Book, Modugno (BA) 2009.

- Carlo Serra, «Rappresentazioni sonore dell’oscuro», in Il secolo dei lumi e l’oscuro, Mimesis, Milano 2008.

- Bram Stoker, Dracula, tr. di Francesco Saba Sardi, Mondadori, Milano 1979.

- Sara Thornton, «Écriture et morsure: l’extase de la ponctuation dans Dracula de Bram Stoker», in “Savoirs et clinique. Revue de psychanalyse”, n. 8, Éditions Érès, Ramonville-Saint-Agne 2007.

a cura di Giovanni Greco

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